Accoglienza a Santa Chiara. Quelle madri più forti della guerra

20 Aprile 2022
Categorie: Emergenze, Pace

La città dalla quale provengono non esiste più. Chernihiv, al confine con la Bielorussia, è ora solo un cumulo di macerie. Eppure è là che vogliono tornare. «La ricostruiremo» dicono. Loro sono Marina e Anastasia, due sorelle ucraine ospitate dalla Caritas diocesana di Faenza al monastero Santa Chiara. Durante il colloquio con gli operatori, lo sguardo di queste madri, nei primi giorni burbero e distaccato, trova modo di sciogliersi e far uscire tutto ciò che portano nel cuore. Ogni giorno devono trattenere le lacrime per dimostrarsi forti davanti ai loro figli. Emerge così, in un pianto o in un abbraccio, tutta la fragilità di chi è scappato con i propri bambini dalla guerra. E, nonostante questo, la grande forza di guardare avanti.

In tutto 29 le persone ospitate dalla Diocesi di Faenza-Modigliana a Santa Chiara

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Scout in servizio con i bimbi ucraini ospitati a Santa Chiara

Al fianco di queste madri, assieme a tanti volontari e parrocchiani, c’è Giulia Babini, operatrice che in queste settimane ha coordinato assieme a don Marco Ferrini, direttore Caritas, l’accoglienza in questi spazi. In tutto a oggi sono 29 le persone che compongono questa piccola grande comunità nel centro della città. «Colpisce la forza che queste madri dimostrano ogni giorno – dice Giulia, dopo più di un mese dal via dell’accoglienza -, in particolare la loro capacità di sorridere assieme nelle piccole cose della vita di ogni giorno. Vanno avanti nonostante tutto il dramma che si portano dietro. Anche nelle faccende quotidiane, spesso, il pensiero va al loro Paese, ai loro mariti rimasti in Ucraina. E nonostante nei colloqui individuali tante di loro abbiano esternato il loro desiderio di tornare a casa il prima possibile, ogni giorno si mettono in gioco nella vita a Santa Chiara».

Accogliere è anche una gita

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In gita a Ravenna.

Il cenare assieme, una gita fuori città, i giochi con i gruppi scout: segni di una comunità che non si arrende e mette al centro il futuro dei propri figli. Come a casa Bersana – dove la Diocesi ospita altri 24 profughi – anche qui ogni settimana crescono le attività. Come raccontato su il Piccolo della scorsa settimana, diversi bambini hanno iniziato il loro percorso scolastico a Sant’Umiltà. Altri sono stati accolti negli istituti Pirazzini e San Rocco. Tante associazioni sportive hanno dato la loro disponibilità a coinvolgere i bambini ucraini. Spesso gli scout fanno visita, portando i loro fazzolettoni colorati e i loro giochi. L’associazione “Pedalare per chi non può” ha progettato un percorso ricreativo con i più piccoli. Accoglienza è anche una gita: nei giorni scorsi gli ucraini di Santa Chiara, grazie a Viaggi Erbacci, hanno trascorso una giornata a Ravenna assieme a tre volontari, ammirando così i mosaici e le bellezze della città.

“C’è voluto del tempo per creare il giusto clima di comunità, le famiglie provengono da diverse aree dell’Ucraina, alcune russofone”

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Lezione di italiano

Il monastero di Santa Chiara si trasforma poi tre volte a settimana in una scuola di italiano. «Abbiamo il supporto di alcune maestre delle elementari – spiega Giulia – e poi c’è anche una docente ucraina, che dà una grande mano, perché la comunicazione è sicuramente uno degli ostacoli più difficili per queste persone». Giulia ha visto nascere e crescere questa comunità. «Oggi queste famiglie sono molto affiatate, ma all’inizio abbiamo dovuto lavorare molto per creare il giusto clima di convivenza all’interno della casa – racconta -, anche perché si tratta di persone che provengono da aree molto diverse dell’Ucraina e con contesti socio-culturali differenti. Molte ospiti sono russofone, alcune hanno vissuto direttamente gli effetti della guerra. Marina e Anastasia, due sorelle, all’inizio avevano un carattere molto burbero, ma conoscendo le loro storie capisci il perché abbiano “indossato” questa corazza esterna».

Non solo burocrazia, ma relazioni

Laureata come assistente sociale, in questi anni Giulia si è messa al fianco delle persone più fragili. Un anno in servizio civile al Centro di ascolto diocesano l’ha messa a contatto diretto con la povertà del territorio, e ora c’è un’emergenza. «Si tratta di situazioni diverse da quelle che si vivono nel Centro di ascolto – spiega Giulia -. Avere cura della vita complessiva di una persona, e non solo di alcuni bisogni contingenti, è per certi versi più complesso. A fare la differenza è la capacità di costruire un percorso basato sulle relazioni».

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